flottazione, il riassunto

giovedì 11 ottobre 2007

l'origine dipendente

"In Tibet, c’è una ricorrenza settimanale ove coloro che macellano il bestiame, vengono sorretti dalle preghiere degli altri credenti, poiché il loro karma in mistica evidenza, non appare buono"
Così, quelli che si nutrono di ciò che altri manipolano sostengono speranza nella prossima vita di quelli.
*
Io non sono mai stata in Tibet.
Mi piace pensarlo come vero.
*
Il riassunto è finito.
*
Ringrazio.
*

mercoledì 10 ottobre 2007

Czeslaw Milosz

Vi hanno tolto le vesti bianche,
Le ali e perfino l'esistenza,
Tuttavia io vi credo, messaggeri.

Là dove il mondo è girato a rovescio,
Pesante stoffa ricamata di stelle e animali,
Passeggiate esaminando i punti veritieri della cucitura.

La vostra tappa qui è breve,
Forse nell'ora mattutina, se il cielo è limpido,
In una melodia ripetuta da un uccello,
O nel profumo delle mele verso sera
Quando la luce rende magici i frutteti.

Dicono che vi abbia inventato qualcuno
Ma non ne sono convinto.
Perché gli uomini hanno inventato anche se stessi.

La voce - senza dubbio questa è la prova,
Perché appartiene a esseri indubbiamente limpidi,
Leggeri, alati, (perché no?),
Cinti dalla folgore.
Ho udito questa voce in sogno
E, cosa ancora più strana, capivo pressappoco
il dettame o l'invito in lingua ultraterrena:

è presto giorno
ancora uno
fa' ciò che puoi.

Czeslaw Milosz, Poesie.
*

Architettura, Pittura, Fotografia

Scatta. Non perdere un solo minuto.
La luce va bene. Non hai bisogno
di calcolare al millimetro. E’ inutile
prendere le misure. Qualsiasi taglio.
Devi fissare la mia faccia adesso.
Le mani sono come rottami roventi.
Annuso belve. Il naso.
Questo pallido gelo che mi sento addosso.

Il solo scrupolo di meraviglia
che irrita la pupilla. Come mi vedi.
Se puoi vedermi, obiettivo
di questo istante polaroide. E’ notte?

E’ notte forse. E’ questa posa
in cui qualcosa mi stringe.
Devi sbrigarti. Comincio a trasfigurarmi.
I nervi cantano come bandiere bagnate.

Apri l’occhio, cratere lunatico, non aspettare
che si congeli in blocchi di ragione
il blu sublime del subconscio, il sublunare
fluire delle correnti abissali.

Scatta, non fare morire il mio esserci
in quest’inutile combinazione
di spazio e di tempo, tra gli angoli, lungo
il filo delle fessure di un attimo.

Se lo fai ti regalo un canestro
di orchidee immaginarie. I retroscena di un sogno.
E inoltre un nastro magnetico,
la carta vergine. Mi scriva la tua luce.

Tu prestati a certe esigenze. Anche se
tutto va chiaramente perduto.
Naturalmente ho bisogno
della mia immagine.

Dario Villa, Tutte le poesie 1971 - 1994, Sipiel, 2001
*

TEMERITA'

Da che cosa dipende, in tutto il mondo,
che si giunga a guarire?
Per chiunque è un diletto
sentire il suono arrotondarsi in note.

Via tutto quanto intralcia il tuo percorso!
Basta con ogni tetra aspirazione!
Prima del canto, prima del silenzio,
il poeta deve vivere.

Rintroni dunque l'anima, da un capo
all'altro, il clangore metallico
dell'esistenza. Se gli trema il cuore
farà pace, il poeta, con se stesso.

Johann Wolfang Goethe, Il Divano occidentale-orientale, Rizzoli, 1990.
*

Frammento

Cos'è la poesia? Forse un mosaico
Di pietre colorate curiosamente composte
In disegno? Piuttosto cristallo cui
Con paziente lavoro è stata insegnata
La luminescenza di sontuosi splendori,
La resa della bellezza in fonte di timore; un
cristallo che i raggi di sole imprigiona,
Così che trasformati si pieghino in fasci di arcobaleni
Densi di senso istoriato per amore di religione.

Amy Lowell, POESIE, Einaudi, 1990.
Traduzione e cura di Barbara Lanati.
*

Dove l'abbraccio sconfina

E' nel saperti esistere la mia occorrente
fortuna che prima nel conoscerti consiste
come un lembo di mare un boscoso declivio
una baia di sabbia un tratto mosso di campagna
in un paesaggio fascinosamente che ti eguaglia
oltre lo sguardo dove l'abbraccio sconfina
nel consapevole stupore del comprenderne
quanto di quell'essenza mi ha pervaso.

Camillo Pennati, UNA DISTANZA INSEPARABILE, Einaudi, 1998
*

martedì 9 ottobre 2007

Son quattro le stagioni della vita

Ma un filo le collega
invisibile e arcano:
l’intemporalità.
È desso la sostanza
simbolica del tutto diveniente:
nulla fra il tutto e il niente
bimba è la differenza,
fra l’essere e il non essere,
fra la vita e la morte.
Questa è del saggio la stupenda sorte:
vivere il tutto come fosse niente
vivere il niente come fosse il tutto.
Questo è solo il secondo,
bimba bella, segreto d’una vita
veramente beata.
Ché il primo, tu lo sai, è la cioccolata!

Giulio Sforza, Canti di Pan e ritmi del Thiaso, Metanoesi, 2005.
*

domenica 7 ottobre 2007

Criselefantina

Tutti gli ori che tu senza misura,
Autunno, fulvi e rosei diffondi
ne le chiome de’ boschi moribondi,
fanno ricca la sua capellatura.

E la più delicata e la più pura
qualità degli avorii un poco biondi
è ne’ pallori vergini e profondi
de la misteriosa creatura.
Snella com’Ebe gioia degli dei,
senz’ombra alcuna poi ch’è quasi impube,
guarda il Mare che lento trascolora.

Ed ecco sorge a immagine di lei,
su dall’estremo limite, una Nube
pallida che su ‘l vertice s’indora.

Gabriele D’Annunzio, Canto novo Intermezzo, Milano, 1901.
*

Da presso

Ma senza mai perdere di vista l’insieme. Anche la più semplice baracca
vuole il suo verbo, i suoi sostantivi e i suoi aggettivi,
come ogni scrittura improvvisata il suo Pikionis.
L’ingenuità non si dà gratuitamente, si mette in scena e si recita,
se sei uno dei pochi milioni che danno un senso all’umanità.

Odisseas Elitis, E’ presto ancora…, Donzelli, 2000.
Curato da Paola Maria Minucci.
*

Una cosa sublime

A una certa ora, monotona come il declino
del corpo, vive in me uno sperduto sublime
di cui non ho più sentire né voce o presenza
dolce di quando pareva cantare da un rudere. Una
rara e confusa memoria di come chi firma con una croce,
come una incauta rondine si aggrappa a fili invisibili.
Essa pur sempre parla invidiata dall’altitudine
da cui si appresta, sorridendo e talvolta
rompente come chi non ha mai peccato, orba
del vuoto come io di ciò non posso, e stento
ad afferrarla mentre essa mi sgomenta, quanto
toccarla mi svanisce. È certo troppo lontana.
È impenetrabile per noi e si chiama delizia
del giusto.
ATTILIO ZANICHELLI, Una cosa sublime, Torino, 1982.

Scheda 2

Un certo senso della relatività delle cose
abbastanza sviluppato
e una passione dominante (non particolare)
cioè più che altro un insieme
del dinamico dell’esistenza
messo discretamente a fuoco
però sempre ancora questioni di vuoto
dovute a scarsa fedeltà alla prospettiva
a scarso attaccamento al suo valore utopistico.

Piera Oppezzo, L’UOMO QUI PRESENTE, Einaudi, 1966.
*

Che fine ha fatto l’elefante?

Che fine ha fatto l’elefante,
quello a cui Shiva rubò la testa
per riportare suo figlio Ganesh
in vita?

E’ la curiosità di un bambino
l’immaginazione indiscreta che continua
a indagare, che cerca un modo
per dar credito alla fantasia
un modo per prolungare la storia.

Se Ganesh poteva ancora essere Ganesh
con una testa di elefante
non potrebbe anche il corpo
dell’elefante
trovare un’altra vita,
magari con la testa di un cavallo?

E se trovassimo
la testa di un cavallo per riportare in vita
il corpo dell’elefante –
Chi sarebbe il vero elefante?
E che ne faremmo
del corpo del cavallo?

Tuttavia, il bambino rifiuta
di accettare la negligenza di Shiva
e cerca una soluzione
che non contempla la morte.
***
Ma ora quando osservo
la cartolina di Ganesh
incorniciata sul muro,
immagino anche la carcassa putrescente
di un elefante decapitato
che giace accartocciato
sul fianco, ricoperto di merda di uccelli,
merda di avvoltoi –

Oh, quell’elefante
la cui testa sopravvisse
per Ganesh –

E’ morto, certo, ma gli altri
del suo branco, centinaia
di suoi fratelli, l’avranno trovato.
Saranno rimasti a guardarlo per ore
con lenta e oscillante tristezza…
Quanto tempo avranno girato e rigirato
in tondo, con le proboscidi
rivolte ora da un lato, ora dall’altro,
verso l’elefante senza testa.

Una danza, questa,
una danza di gruppo
di cui nessuno parla.

Sujata Bhatt, Il colore della solitudine, Donzelli 2005.
A cura di Paola Splendore.
*

Amore voglio dirti

che quel che sorge dalle roventi braci
è un conato, un sussulto, un asinino sbotto

non c’è lingua di fuoco
mi comprendi

il mio desiderio è limpido
intatto

non c’entrano le trottole le puzzole
sono giri di vite e fissazioni di mensole

perché io ci credo nell’amore.
*

Antonio Porta

“Nel fare poesia” suggerisce lo ‘stare dentro’. Dentro che cosa? Il linguaggio,
naturalmente, e subito quello della poesia, come ci è trasmesso da Omero
a Ungaretti, dalla Bibbia a Pound; ma il linguaggio della poesia ‘sta dentro’
la lingua, come la storia degli uomini ce la consegna, non fissata per
sempre ma in continua trasformazione perché la lingua a sua volta ‘sta dentro’
l’oceano prelinguistico, l’esperienza immediata, il sentimento che ne scaturisce,
e perfino l’estasi dell’esserci.

Poeta è colui che attraversa queste stratificazioni come un palombaro,
in discesa e in ascesa, e prova un’irresistibile vocazione a rendere conto
di queste discese-ascese. Ad esse si lega la forma della poesia, inventata
di volta in volta come linguaggio dell’espressione. Di questo rapporto
stretto un poeta è certamente autocosciente ma non può fare della
sola autocoscienza il fine del proprio operare, come non può
fare poesia fidandosi del proprio impegno artigianale. Un poeta sa di essere
un artigiano perfino maniacale ma ha da temere il suo sapere ‘formale’
se diventa come un arto fantasma staccato dal corpo.

La poesia è dunque conoscenza? Mi pare una semplificazione. La poesia
rende conto innanzitutto di se stessa, della radicalità delle proprie
scelte linguistiche. Nel rendere conto del prelinguistico
non può però pregiudicare i propri esiti che rimangono imprevedibili
anche rispetto a un’esperienza ben codificata. Soltanto nel momento
decisivo del fare linguistico la poesia si mette a disposizione di significati
che da lei possono scaturire, magari a dispetto della stessa volontà
del poeta, a dispetto delle sue rimozioni e reticenze.

Allora, che cosa può dire un poeta del prima e del dopo quell’assoluto
della forma per cui lavora? Che cosa si può dire di più di quello che è in una forma
e che in definitiva non gli appartiene più?

Qualcosa può dire sul proprio metodo di lavoro e indicare le tracce
di quel percorso che, tra intenzioni e ricerca formale, tra ossessioni
prelinguistiche e stimoli linguistici quasi allo stato puro, lo ha portato
a cristallizzare una soluzione tra le infinite possibili. Il metodo,
certamente, pur nella consapevolezza della iperdeterminazione
delle scelte, delle molteplici concause che aleggiano intorno
alla individuazione di un aggettivo, di un sostantivo, di un verso.

Che tipo di conoscenza può dunque venirci da un linguaggio
iperdeterminato quindi polisemico? C’è un’analogia che resiste nel tempo,
quella con il linguaggio del sogno, anche perché l’interpretazione
dei sogni passa attraverso la tradizione della letteratura, come
è sempre stato riconosciuto. Oscillando tra menzogna e verità,
tra folgorazione realistica e ombra mitica, il linguaggio del sogno
si giustifica con la sua stessa esistenza; non si può non sognare.
Il linguaggio della poesia corrisponde a una necessità analoga:
non si può non esprimersi, non si può non mangiare.

La poesia è l’evidenza dell’esserci nella sua forma più essenziale, più spoglia.
Il paradosso sta nel fatto che ci nutre con domande più che con risposte.
Interrogare la propria necessità è funzione irrinunciabile della poesia
come interrogare la vita, in un nodo a treccia.

L’accento politico della poesia è conseguenza dell’accento etico
della sua necessità, che allunga le radici fino al territorio della
libertà di pensiero, legato proprio al mondo della polis,
alla storia delle sue lotte e delle sue trasformazioni,
che la lingua di tutti esprime in prima istanza così come richiede,
in un momento successivo, l’opera del poeta-palombaro.

26.2.1985

Antonio Porta, Nel fare poesia,
*

"Ma présence est peut-être incongrue
mais s'il n'en reste qu'un je serai celui-là."

"Onde coprirmi di pelliccia e seta e senza rovesciare il nero inchiostro dei suoi occhi vasti,
come silfo al soffitto o sciatore su neve, Jean saltò sulla tavola, accanto a Nijinsky.
Questo fu nella sala di Larue porporina, dove, di incerto gusto, mai l'oro si velò.
La barba di un dottore, soave e folto vello, diceva:
"E' fuori luogo la mia presenza qui; ma se uno ha da restare, io sarò quello".
E vinto era il mio cuore sotto i colpi di "Indiana"."

La traduzione è di Franco Fortini per Marcel Proust "Poesie", Einaudi 1983.
*